Come dicevo, ho partecipato per conto di IWA/HWG alla tavola rotonda sul diritto d’autore organizzata a margine delle consultazioni AGCOM.
Affido un report finale del mio pensiero al solo blog in quanto nelle stanze del Senato che ci hanno ospitato non avevamo a disposizione né connettività 3G né Wireless, quindi niente Twitter.
Devo dire che me ne ritorno a casa con un rafforzamento delle idee precostituite con cui ero arrivato.
Era evidente che le posizioni dei relatori invitati sarebbero state spesso in contrapposizione, talvolta anche aspra, e avevo già evidenziato come in realtà la posizione degli sviluppatori per il web che rappresento si trovi a metà del fuoco incrociato. Proprio come il mashup che siamo abituati a pensare nelle nostre attività quotidiane di progettazione e sviluppo.
Il fattore generale che però mi ha più colpito è la modalità con cui i vari soggetti si avvicinano a questi argomenti. Posizioni che spesso hanno il sapore del “sentito dire” dell’ “incolpare il primo soggetto buono disponibile“.
E’ infatti singolare che in un dibattito che si propone di così alto livello ci sia ancora qualcuno che associ in maniera univoca un reato come la pirateria a una tecnologia come il peer-to-peer. Come è altrettanto singolare che qualcuno attribuisca alla pirateria tutti i mali del proprio settore.
Al di là dei sette minuti della esposizione dei propri argomenti, sicuramente troppo stretti per rappresentare una realtà complessa, ho evidenziato che in pochi hanno provato a mettere in gioco le specificità della rete. Insomma, il solito, problema: regolamentare la rete attraverso strumenti e idee che nascono fuori dalla rete.
E’ per questo che ho deciso di dedicare il mio intervento alle Creative Commons. Non tanto perché attraverso questo tipo di licenze d’uso sia possibile descrivere l’intero mercato dei diritti d’autore, non si può avere questa pretesa, ma perché sono idee e regolamentazioni che sono nate nella rete, a misura di rete. Perché questa analisi ci aiuta a capire che non si può parlare di diritto d’autore avendo in testa i soli diritti televisivi o quelli legati al mondo della discografia. E soprattutto non si possono difendere i diritti degli editori, fingendo di occuparsi degli autori.
Il web con la sua (auto)organizzazione ci ha aperto un mondo nuovo dove sono maturati i concetti di Open Source, che hanno delineato un passaggio importantissimo tra il prodotto e il servizio. Quella esigenza che oggi tutti invocano di garantire da una parte i giusto compenso a chi produce un contenuto e dall’altra permettere una libera circolazione delle idee, sul web è già esistente. Il web è così.
Concordando con molti relatori, quello che manca è una “cultura del valore”, una educazione all’uso consapevole delle risorse.
E pensare a un’azione di regolamentazione senza pensare al contorno è del tutto illogico.
I modelli di business che il web introduce sono diversi. Il processo di disintermediazione non è un gioco e conduce i nostri ragionamenti a un pensiero divergente che, capisco, in molti potrebbe non nascere.
Ieri per esempio un autore sostenitore dell’esigenza di “protezione tradizionale del diritto dell’autore” ha portato come esempio il percorso professionale di Paolo Conte (cito dando per buono senza aver verificato), sostenendo che l’architettura editoriale tradizionale ha permesso all’artista, non certo commercialmente facile da trattare, di poter aspettare sei album prima di trovare un primo successo. Questo grazie al processo di produzione e distribuzione del contenuto che oggi si vede minacciato da internet.
Ecco, io vedo invece questo passaggio come un lato negativo.
Nel web Paolo Conte non avrebbe dovuto aspettare la carità di un editore disposto a pagare senza profitti sei album. Paolo Conte avrebbe potuto autonomamente produrre le sue opere, magari distribuendole con licenza Creative Commons con libertà di riproduzione e diffusione e citazione della fonte. Magari avrebbe nel contempo potuto generare una propria linea di business iniziando a vendere per conto proprio le copie. E forse questa strategia lo avrebbe ripagato ben prima delle sei edizioni.
Senza poi considerare che il vecchio mondo poteva dare questa possibilità ad pochi eletti, mentre il web permette oggi a chiunque di intravedere una luce per il proprio business, possono esistere decine e decine di aspiranti come Paolo Conte.
Semmai il problema della rete può essere un altro, e cioè quello di trovare il modo di emergere da quello che in gergo viene chiamato “brusio di fondo”, ma questo è tutt’altro problema che non c’entra nulla con i diritti d’autore.
Poi però anche sulla rete, non si deve cadere nell’errore che sia tutto facile e democratico e prendere atto che alcune posizioni sono giuste ma miopi.
Per esempio, non si può accusare AGCOM di “abuso di potere” quando ipotizza di chiedere ai provider di sospendere di siti sospettati di illegalità e permettere a Google o Facebook di farlo senza motivo e al di fuori di ogni regola di diritto.
Insomma, così come oggi è illogico pensare al web e progettare senza avere in mente il mashup delle tecnologie e delle risorse, è a mio avviso illogico pensare alla normativa senza avere prima analizzato l’intero pacchetto di risorse e competenze che ci sono intorno.
L’AGICOM sembra che lo stia facendo, ma il mio timore, così come quello del Senatore Vita, è che possano crearsi due canali di discussione, quello teorico legato all’analisi dei massimi sistemi, e quello pratico che invece determinerà le vere disposizioni finali.
Speriamo bene.
Non si può chiudere questo post senza ringraziare chi ha dato vita alla tavola rotonda: Guido Scorza, gli altri co-organizzatori, e Giampaolo Colletti, che ha come unico difetto quello di avere un sito personale realizzato interamente in flash e quindi invisibile dal mio iPad ;)
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